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Ipertensione arteriosa

Ipertensione arteriosa

 

Che cos’è l’ipertensione arteriosa?

L’ipertensione arteriosa è una patologia caratterizzata dall’elevata pressione del sangue nelle arterie, che viene determinata dalla quantità di sangue pompata dal cuore e dalla resistenza delle arterie al flusso del sangue. Colpisce circa il 30% della popolazione adulta di entrambi i sessi e, nelle donne, è più frequente dopo la menopausa.

Quali sono le conseguenze?

L’ipertensione arteriosa non è una malattia, ma un fattore di rischio, ovvero una condizione che aumenta la probabilità che si verifichino altre malattie cardiovascolari (per esempio: angina pectoris, infarto miocardico, ictus cerebrale). Per questo motivo, è fondamentale riuscire ad individuarla e curarla, allo scopo di prevenire i danni che essa può provocare.

Si tratta di ipertensione arteriosa sistolica quando viene aumentata solo la pressione massima; al contrario, nell’ipertensione diastolica, vengono alterati i valori della pressione minima. Si definisce ipertensione sisto-diastolica la condizione in cui entrambi i valori di pressione (minima e massima) sono superiori alla norma.

Classicamente, e in conseguenza delle modificazioni che avvengono nell’organismo per effetto dell’invecchiamento, sono gli anziani e i grandi anziani (ultranovantenni) a soffrire più spesso di ipertensione arteriosa sistolica isolata, con valori di pressione massima anche molto alti, e pressione minima bassa. I soggetti più giovani, al contrario, soffrono più frequentemente di forme di ipertensione diastolica isolata.

Da cosa può essere causata l’ipertensione?

L’ipertensione arteriosa può essere classificata in primaria e secondaria.

Non esiste una causa precisa, identificabile e curabile dell’ipertensione arteriosa primaria (o essenziale), che rappresenta circa il 95% dei casi di ipertensione: gli elevati valori pressori sono il risultato dell’alterazione dei meccanismi complessi che regolano la pressione (sistema nervoso autonomo, sostanze circolanti che hanno effetto sulla pressione).

Nel restante 5% dei casi, invece, l’ipertensione è la conseguenza di malattie, congenite o acquisite, che interessano i reni, i surreni, i vasi, il cuore, e per questo viene definita ipertensione secondaria. In queste situazioni, l’individuazione e la rimozione delle cause (cioè, la cura della malattia di base) può essere accompagnata dalla normalizzazione dei valori pressori.

Al contrario dell’ipertensione arteriosa essenziale, che classicamente colpisce la popolazione adulta, l’ipertensione secondaria colpisce anche soggetti più giovani e spesso è caratterizzata da valori di pressione più alti e più difficilmente controllabili con la terapia farmacologica.

È importante in alcuni casi evidenziare la dipendenza dell’aumento dei valori di pressione arteriosa dall’uso (talvolta dall’abuso) di alcune sostanze tra cui, per esempio, la liquirizia, gli spray nasali, il cortisone, la pillola anticoncezionale, la cocaina e le amfetamine. In queste situazioni, se si sospende l’assunzione di queste sostanze, i valori pressori tornano alla normalità.

Con quali sintomi si manifesta l’ipertensione?

L’aumento dei valori pressori non è sempre correlato alla comparsa di sintomi, soprattutto se avviene in modo non improvviso: l’organismo si abitua in modo progressivo ai valori sempre un po’ più elevati, e non invia segnali al paziente. Per questo, in molte delle persone colpite da ipertensione non sono presenti sintomi, anche in presenza di valori pressori molto elevati.

In ogni caso, i sintomi associati all’ipertensione arteriosa non sono specifici, e per questo sono spesso sottovalutati o imputati a condizioni diverse. Tra i sintomi più comuni troviamo:

Mal di testa, specie al mattino

Stordimento e vertigini

Ronzii nelle orecchie (acufeni, tinniti)

Alterazioni della vista (visione nera, o presenza di puntini luminosi davanti agli occhi)

Perdite di sangue dal naso (epistassi)

Nei casi di ipertensione secondaria, ai sintomi aspecifici possono esserne associati altri, più specifici, provocati dalla malattia di base.

Il fatto che i sintomi siano scarsi e aspecifici rappresenta la ragione principale per cui spesso il paziente non si accorge di avere la pressione alta. Per questo è fondamentale controllare periodicamente la pressione: fare diagnosi precoce di ipertensione arteriosa significa prevenire i danni ad essa legata e, quindi, malattie cardiovascolari anche invalidanti.

Quali sono i fattori che predispongono le persone a questa condizione?

Familiarità: la presenza, in famiglia, di soggetti ipertesi comporta un aumento di probabilità che un paziente sviluppi ipertensione arteriosa.

Età: la pressione arteriosa aumenta con l’avanzare dell’età, come conseguenza dei cambiamenti che si verificano a carico dei vasi arteriosi (che, invecchiando, diventano più rigidi). Ad un certo punto, mentre la pressione sistolica (massima) continua ad aumentare per effetto dell’età, la diastolica (minima) non aumenta più o, addirittura, tende a diminuire; questo spiega le forme di ipertensione sistolica isolata tipica dei grandi anziani.

Sovrappeso: sovrappeso e obesità, attraverso meccanismi diversi e complessi, sono correlati ad un incremento dei valori pressori.

Diabete: questa condizione, grave e assai diffusa tra la popolazione adulta, si associa spessissimo ad un aumento della pressione arteriosa, elevando in modo significativo il rischio di malattie cardiovascolari.

Fumo: il fumo di sigaretta altera in modo acuto i valori di pressione arteriosa (dopo aver fumato, la pressione resta più alta per circa mezz’ora); a questo, si aggiungono i danni cronici che il fumo provoca ai vasi arteriosi (perdita di elasticità, danno alle pareti vascolari, predisposizione alla formazione di placche aterosclerotiche).

Disequilibrio di sodio e potassio: il consumo di cibi troppo salati e, in generale, un’alimentazione troppo ricca di sodio o troppo povera di potassio, possono contribuire a determinare l’ipertensione arteriosa.

Alcool: un consumo eccessivo di alcoolici (più di un bicchiere al giorno per le donne, due per gli uomini) può contribuire all’innalzamento dei valori pressori, oltre che provocare danni al cuore (che, in conseguenza del troppo alcool, tende a dilatarsi e a perdere la sua funzione di pompa, con gravi conseguenze su tutto l’organismo).

Stress: lo stress (fisico ed emotivo) contribuisce al mantenimento di valori di pressione più alti. Questo spiega, per esempio, perché in occasione delle visite mediche, la pressione è spesso più alta rispetto a quella che il paziente si misura al domicilio; perché la pressione possa essere più alta nei giorni lavorativi rispetto ai periodi di vacanza, ed anche perché i valori di pressione aumentino mentre si fa esercizio fisico.

Sedentarietà: non esiste certezza riguardo alla correlazione tra sedentarietà ed aumento della pressione arteriosa; è certo, tuttavia, che l’attività fisica moderata e costante (mantenendo attivo l’organismo e favorendo il controllo del peso) contribuisca a ridurre i valori pressori e a potenziare le prestazioni fisiche (l’allenamento aumenta progressivamente la capacità di tollerare gli sforzi).

Diagnosi

La misurazione della pressione arteriosa viene indicata attraverso due valori, pressione sistolica (massima) e pressione diastolica (minima), che dipendono dal fatto che il muscolo cardiaco si contrae (sistole) e si rilassa (diastole) tra un battito e l’altro.

I valori normali per la popolazione adulta sono compresi entro i 140/85 mmHg. Pertanto, si tratta di ipertensione quando uno o entrambi i valori di pressione sono costantemente superiori alla norma.

Poiché l’aumento dei valori pressori spesso non è correlato a sintomi e poiché, quando presenti, questi non sono specifici, l’unico modo per fare diagnosi di ipertensione arteriosa è quello di sottoporsi periodicamente a misurazioni della pressione. In caso contrario, è possibile effettuare una diagnosi quando i valori di pressione, alti da parecchio tempo, hanno già compiuto un danno o, addirittura, in occasione di eventi acuti (infarto miocardico, ictus cerebrale).

Una volta fatta una diagnosi di ipertensione arteriosa, è importante sottoporsi ad alcuni esami allo scopo di comprendere se l’ipertensione ha già danneggiato i vasi, il cuore, i reni, aiutando il medico a definire il profilo di rischio cardiovascolare dei pazienti e a scegliere la terapia antiipertensiva più adatta.

Trattamenti

Come si può curare l’ipertensione?

Il trattamento dell’ipertensione arteriosa, anche quando viene previsto il ricorso a farmaci, non può assolutamente prescindere da cambiamenti nello stile di vita.

Il trattamento della pressione arteriosa deve avere come obiettivo quello di riportare i valori pressori alla normalità (cioè, entro i 140/85 mmHg, a meno di patologie concomitanti, che impongono valori di pressione più bassi): non è sufficiente, pertanto, abbassare un po’ la pressione, ma è importante normalizzarla (diversamente, il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari resterà aumentato).

Un’alimentazione povera di sale, un’attività fisica moderata e costante (30 minuti/die di camminata veloce o di cyclette), il controllo del peso corporeo (la perdita di peso, in caso di sovrappeso/obesità), l’astensione dal fumo di sigaretta, un consumo controllato di alcoolici, sono tutti atteggiamenti consigliabili in caso di riscontro di un incremento di valori pressori. Nei casi di lievi aumenti della pressione arteriosa, ed in mancanza di altri fattori di rischio correlati (fumo, diabete, ipercolesterolemia, obesità), queste modificazioni dello stile di vita possono essere la sola terapia prescritta dal medico, e possono essere efficaci nel riportare la pressione arteriosa a valori normali.

Una volta effettuata la diagnosi di ipertensione arteriosa e corrette le abitudini di vita, è possibile che sia necessario cominciare una terapia farmacologica, allo scopo di normalizzare la pressione arteriosa.

È importante sapere che la terapia antiipertensiva è una terapia cronica, che deve essere assunta per molti anni (di rado capita che un paziente iperteso ad un certo punto possa smettere di assumere i farmaci per la pressione).

Sono disponibili molti farmaci che agiscono sul controllo della pressione arteriosa con meccanismi diversi; sono tutti efficaci e sicuri, per cui la scelta del tipo di antiipertensivo da utilizzare viene fatta dal medico in base alla storia del paziente e alla presenza di altre patologie associate.

Per alcuni pazienti è sufficiente utilizzare un solo antiipertensivo per normalizzare la pressione arteriosa, per altri risulta opportuno ricorrere all’associazione di più farmaci, che agendo con meccanismi diversi concorrono al controllo della pressione. Il fatto che sia necessario assumere più antiipertensivi non significa avere un’ipertensione più aggressiva, ma più semplicemente si deve alla diversa reazione che ogni paziente può avere verso le singole terapie. Per questo, potrebbe volerci un po’ di tempo prima che si arrivi a trovare il o i farmaci efficaci e meglio tollerati. E può anche succedere che dopo anni di terapia, un paziente richieda l’aggiunta o il cambio di un farmaco: non è colpa dell’antiipertensivo che perde efficacia, ma è l’effetto della pressione arteriosa, che con gli anni cambia.

In alcuni pazienti anche l’utilizzo anche di 4-5 farmaci antiipertensivi a dosaggio pieno può non essere sufficiente a controllare la pressione arteriosa: in questi casi si tratta di ipertensione arteriosa resistente. Di recente si è proposto l’uso di nuove terapie non farmacologiche per il trattamento di queste forme di ipertensione arteriosa (denervazione delle arterie renali).

Farmaci antiipertensivi:

ACE inibitori, antagonisti del recettore per l’angiotensina II (Angiotensin II receptor Blocker – ARBs) o sartani, inibitori diretti della renina: abbassano la pressione interferendo con la produzione di alcune sostanze circolanti che costituiscono il cosiddetto sistema renina-angiotensina-aldosterone. Ogni classe di farmaci risulta attiva in un punto diverso di questo sistema.

Calcio antagonisti: controllano la pressione determinando vasodilatazione.

Diuretici: aiutano l’organismo a smaltire acqua e sali minerali (sodio)

Alfa e beta bloccanti: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo periferico della pressione arteriosa

Simpaticolitici ad azione centrale: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo centrale (sistema nervoso centrale) della pressione arteriosa

Insufficienza mitralica

Insufficienza mitralica

 

L’insufficienza mitralica è una patologia caratterizzata da un difetto di chiusura della valvola mitrale che fa sì che parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro refluisca nell’atrio sinistro invece che andare in aorta, provocando affaticamento e disturbi respiratori.

Che cos’è l’insufficienza mitralica?

In condizioni normali la valvola mitrale è formata da due sottili lembi mobili legati attraverso le corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, contraendosi insieme al ventricolo sinistro in cui sono posizionati impediscono lo sbandieramento (prolasso) dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: quando la valvola si apre i margini dei lembi si separano, consentendo al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro. In un cuore sano la valvola mitrale separa ermeticamente l’atrio sinistro dal ventricolo sinistro. Quando, invece, questa valvola non si chiude adeguatamente ne consegue la cosiddetta insufficienza mitralica, una condizione in cui parte del sangue che dovrebbe essere spinto dal ventricolo sinistro nell’aorta ritorna invece all’interno dell’atrio. A prescindere dalla causa, questa condizione può comportare un affaticamento del cuore, con dilatazione del ventricolo sinistro. Questo può avere come conseguenze uno scompenso cardiaco e anomalie del ritmo cardiaco, come la fibrillazione atriale, ma anche l’endocardite.

Da cosa può essere causata l’insufficienza mitralica?

L’insufficienza mitralica può essere primitiva o secondaria. Nel primo caso sono presenti alterazioni anatomiche dell’apparato valvolare mitralico: alterazioni dei lembi valvolari provocati ad esempio da un’endocardite o dalla malattia reumatica, allungamento o rottura delle corde tendinee con conseguente prolasso dei lembi valvolari, calcificazioni dell’anello mitralico, rottura traumatica di un muscolo papillare. Nell’insufficienza mitralica secondaria la valvola è anatomicamente normale e il difetto di chiusura è determinato da una grave compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro (insufficienza cardiaca), che spesso è secondaria a una cardiopatia ischemica.

Con quali sintomi si manifesta l’insufficienza mitralica?

I sintomi dell’insufficienza mitralica sono correlati alla gravità e alla velocità di insorgenza e progressione; possono comprendere fiato corto (soprattutto durante l’attività fisica o da sdraiati), facile faticabilità, tosse (soprattutto di notte o da sdraiati), palpitazioni, gonfiore a piedi e caviglie.

Come si può prevenire l’insufficienza mitralica?

Per ridurre al minimo il rischio di insufficienza mitralica è fondamentale trattare adeguatamente le condizioni che potrebbero innescarla, come le infezioni alla gola che possono portare alla malattia reumatica (una sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche).

Diagnosi

Dopo un’accurata visita, se vengono riscontrati sintomi suggestivi di insufficienza mitralica che può rivelare tipicamente la presenza di un soffio cardiaco, il medico può prescrivere diversi esami diagnostici:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Si possono visualizzare molteplici alterazioni, in special modo segni di dilatazione atriale sinistra, segni di ipertrofia e sovraccarico (“iperlavoro”) del ventricolo sinistro, aritmie come la fibrillazione atriale.

RX torace (radiografia del torace): possono essere presenti segni di dilatazione dell’atrio e del ventricolo sinistro e di congestione polmonare.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità dell’insufficienza mitralica, oltre che delle dimensioni dell’atrio e del ventricolo sinistro e della funzione contrattile di quest’ultimo, e della presenza di ipertensione polmonare. È possibile raccogliere le immagini in tempo reale anche mentre si esegue un test da sforzo (eco stress): l’esecuzione di un eco stress viene suggerita quando c’è discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità dell’insufficienza mitralica a riposo.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso si introduce la sonda dalla bocca e la si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente di visualizzare meglio le valvole e le strutture paravalvolari. Viene suggerito quando l’ecocardiogramma transtoracico non è conclusivo e, in special modo, quando si sospetta un’endocardite.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Si può compiere allo scopo di confermare la mancanza di sintomi in presenza di insufficienza mitralica grave e per valutare la tolleranza allo sforzo.

Coronarografia: è l’esame che permette la visualizzazione delle coronarie utilizzando l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale vengono seguite tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati. La coronarografia viene suggerita quando esiste il sospetto che l’insufficienza mitralica sia secondaria a una cardiopatia ischemica.

RM cuore con mdc: produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni utilizzando la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Consente la valutazione della morfologia delle strutture del cuore, della funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete (ipocinesie o acinesie). La somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto consente inoltre di distinguere se eventuali alterazioni del movimento di parete sono causate da fibrosi (=assenza di vitalità miocardica) o da ischemia. Quest’indagine trova quindi la sua applicazione elettiva nell’insufficienza mitralica secondaria a cardiopatia ischemica, come “guida” a eventuali interventi di rivascolarizzazione miocardica.

Trattamenti

La terapia dell’insufficienza mitralica è correlata alla gravità del vizio valvolare, ai sintomi che lo accompagnano, alla presenza o meno di segni di disfunzione ventricolare sinistra, e al fatto che sia primitiva o secondaria.

Se l’insufficienza mitralica è primitiva e di entità lieve o moderata, è possibile limitarsi a periodici controlli clinici ed ecocardiografici.

In presenza di un’insufficienza mitralica cronica primitiva grave viene suggerito un intervento chirurgico di riparazione (preferibilmente) o di sostituzione della valvola mitralica.

La terapia dell’insufficienza mitralica cronica secondaria consiste invece nella terapia dell’insufficienza cardiaca che ne è la causa:

beta-bloccanti, ACE-inibitori/sartani, anti-aldosteronici, digossina;

diuretici in caso di accumulo di liquidi;

l’impianto di pacemaker (PM) biventricolari e/o defribrillatori automatici (ICD).

 

 

Insufficienza aortica

Insufficienza aortica

 

L’insufficienza aortica è la conseguenza di un difetto di chiusura della valvola aortica, la valvola cardiaca che regola il flusso del sangue dal ventricolo sinistro all’aorta. Quando si verifica questa condizione, una parte del sangue refluisce nel ventricolo sinistro, non permettendo un pompaggio efficiente verso il resto dell’organismo.

Che cos’è l’insufficienza aortica?

Quando la valvola aortica non riesce a chiudersi correttamente parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro ritorna indietro. Da ciò ne consegue la presenza di sintomi come affaticamento e fiato corto, ma si possono anche verificare delle condizioni più gravi, come l’endocardite o lo scompenso cardiaco. Solitamente, però, l’insufficienza aortica viene ben tollerata e i sintomi possono anche manifestarsi dopo decenni. Se invece, come a volte capita (per esempio in conseguenza di un’endocardite), compare improvvisamente un’insufficienza aortica grave, si manifestano fin da subito sintomi di uno scompenso cardiaco.

Da cosa può essere causata l’insufficienza aortica?

L’insufficienza aortica può essere determinata da qualunque disturbo che possa danneggiare la valvola aortica. Tra questi sono compresi le cardiopatie congenite, l’invecchiamento, l’endocardite, la dilatazione dell’aorta ascendente, la malattia reumatica, la sindrome di Marfan, la spondilite anchilosante, la sifilide e traumi all’aorta.

Con quali sintomi si manifesta l’insufficienza aortica?

In gran parte dei casi l’insufficienza aortica insorge gradualmente. Il vizio valvolare rimane asintomatico per il tempo in cui il cuore riesce a compensarlo, ma a lungo andare possono manifestarsi sintomi come debolezza e facile faticabilità, fiato corto durante l’esercizio o da sdraiati, fastidio e vero e proprio dolore al petto spesso esacerbati dall’attività fisica, svenimenti, aritmie, palpitazioni e gonfiore a piedi e caviglie.

Come si può prevenire l’insufficienza aortica?

Sebbene nella maggior parte dei casi l’insufficienza aortica non si possa prevenire, esistono alcuni accorgimenti che aiutano a ridurne il rischio:

Cura adeguata dei mal di gola, allo scopo di ridurre il rischio di malattia reumatica (sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche).

Attenzione verso la cura di denti e gengive, in modo da ridurre il rischio di endocardite.

Controllo sempre attivo della pressione arteriosa.

Diagnosi

Una diagnosi precoce consente di intervenire prima che l’insufficienza aortica diventi più grave mettendo a rischio la vita di chi ne soffre.

È possibile avere i primi sospetti se viene riscontrato un soffio al cuore in occasione di una visita medica.

Tra gli esami che possono essere prescritti per verificare l’ipotesi diagnostica sono inclusi:

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità del rigurgito aortico, oltre che delle dimensioni del ventricolo sinistro e della sua funzione contrattile.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso si introduce la sonda dalla bocca e la si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente di visualizzare meglio le valvole e le strutture paravalvolari. Viene suggerito in particolare quando esiste il sospetto di un’endocardite.

RX torace (radiografia del torace): visualizza un ingrandimento dell’ombra cardiaca e spesso una dilatazione dell’aorta ascendente; in condizioni di scompenso cardiaco sono presenti segni di congestione polmonare (accumulo di liquidi nei polmoni).

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Possono essere rilevati segni di ipertrofia e sovraccarico (“iperlavoro”) del ventricolo sinistro.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Può essere svolto allo scopo di confermare la mancanza di sintomi in presenza di insufficienza aortica grave e/o per valutare la risposta emodinamica all’esercizio.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue, e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Viene effettuato raramente, in genere quando c’è una discrepanza tra la clinica (in particolare la gravità dei sintomi) e la gravità dell’insufficienza aortica alle indagini non invasive.

Trattamenti

La terapia dell’insufficienza aortica dipende dalla gravità del vizio valvolare, dai sintomi con cui si manifesta e dalla presenza o meno di segni di disfunzione ventricolare sinistra.

Nei casi meno gravi non risulta necessaria nessuna terapia, l’unica cosa da fare è monitorare regolarmente la situazione attraverso una valutazione clinica ed ecocardiogramma in modo da poter intervenire tempestivamente in caso di peggioramenti significativi. Se però la pressione arteriosa è alta, il medico prescriverà dei farmaci antipertensivi allo scopo di limitare la velocità di progressione dell’insufficienza aortica.

In presenza di insufficienza aortica grave con sintomi o segni di disfunzione ventricolare sinistra, la soluzione migliore è l’intervento chirurgico, che può prevedere:

la riparazione della valvola aortica

la sostituzione della valvola aortica

La prognosi è in genere buona. Dopo pochi mesi è già possibile tornare a una vita normale.

 

 

Fibrillazione atriale (FA)

Fibrillazione atriale (FA)

 

La fibrillazione atriale è l’aritmia che più frequentemente colpisce la popolazione generale e la sua prevalenza tende a crescere con l’avanzare dell’età. Pur non trattandosi di un’aritmia di per sé pericolosa per la vita, può esporre a delle complicanze che, in alcuni casi, possono risultare molto invalidanti.

Le tre tipologie di fibrillazione (le tre P-> Parossistica, Persistente, Permanente)

La fibrillazione atriale è un’aritmia sopraventricolare scatenata da impulsi elettrici provenienti da cellule muscolari miocardiche presenti a livello della giunzione tra le quattro vene polmonari e l’atrio sinistro.

Nella fibrillazione atriale l’attività elettrica degli atri risulta completamente disorganizzata e non è collegata ad un’attività meccanica efficace. Le onde di depolarizzazione atriale, o onde f, hanno una piccola ampiezza e una frequenza molto elevata (400-600 impulsi al minuto). In queste condizioni il nodo atrioventricolare (NAV) riceve dall’atrio molti più impulsi di quanti sia in grado di condurne, esercitando quindi una funzione di filtro che invia ai ventricoli un numero di battiti non eccessivamente elevati: numerosi impulsi penetrano, infatti, solo parzialmente nel NAV e restano bloccati al suo interno. Questa variabilità della conduzione atrioventricolare rende la contrazione dei ventricoli irregolare. Gli aspetti elettrocardiograficamente rilevanti della fibrillazione atriale saranno quindi la presenza di onde f e l’irregolarità dei battiti.

Dal punto di vista clinico la fibrillazione atriale viene suddivisa in base al modo di presentazione in:

Parossistica: quando gli episodi si presentano e si risolvono spontaneamente in un periodo di tempo inferiore a una settimana.

Persistente: quando l’episodio aritmico non si interrompe spontaneamente ma solo in conseguenza di interventi terapeutici esterni.

Permanente: quando non siano ritenuti opportuni tentativi di cardioversione, o gli interventi terapeutici si siano dimostrati inefficaci.

Chi colpisce e come si manifesta?

La fibrillazione atriale colpisce lo 0,5 -1% della popolazione generale con una prevalenza che aumenta con l’età (0,1% sotto i 55 anni, 8-10% oltre gli 80). La maggior parte dei pazienti colpiti ha dunque più di 65 anni; generalmente gli uomini sono più colpiti rispetto alle donne.

In alcune situazioni fa la sua comparsa in assenza di apparenti condizioni favorenti, ossia in assenza di una cardiopatia strutturale o di condizioni sistemiche (come l’ipertiroidismo) che la possano provocare. In questi casi, che risultano in genere meno del 30%, si parla di fibrillazione isolata. Esistono anche delle condizioni che possono facilitare la fibrillazione atriale: ipertensione arteriosa (presente in circa il 50% dei casi), insufficienza cardiaca, diabete mellito, patologie delle valvole cardiache, esiti di chirurgia cardiaca.

La fibrillazione atriale viene spesso collegata a sintomi, tra cui i più frequenti sono: palpitazioni, dispnea, debolezza o affaticabilità, raramente sincope, dolore toracico. In alcuni casi è asintomatica o, anche se sono presenti dei sintomi, questi non vengono riconosciuti dal paziente, che si limita ad adeguare il proprio stile di vita. Un esempio è la riduzione della resistenza allo sforzo.

Oltre ai sintomi, a volte invalidanti, la fibrillazione atriale può determinare il rischio di eventi trombotici, poiché l’immobilità meccanica degli atrii facilita la formazione di coaguli che successivamente possono migrare nel circolo cerebrale e provocare ischemie e ictus cerebrale.

La mortalità cardiovascolare è aumentata nei soggetti colpiti da fibrillazione atriale e la qualità della vita è ridotta. Inoltre la persistenza della fibrillazione atriale comporta un rimodernamento degli atrii, che assumono caratteristiche elettriche, anatomiche e strutturali (dilatazione, fibrosi) tali da favorire il perpetuarsi dell’aritmia.

Come effettuare la diagnosi

Gli strumenti diagnostici sono:

elettrocardiogramma,

Holter ECG 24 ore,

che integrano una visita aritmologica.

In alcuni casi, se esami semplici come quelli suddetti non risultano sufficienti, è possibile eseguire indagini più approfondite come ad esempio lo studio elettrofisiologico endocavitario.

Trattamenti

Nel percorso terapeutico della fibrillazione atriale bisogna valutare la modalità di presentazione (parossistica, persistente, permanente), la presenza di una cardiopatia strutturale o di altre condizioni favorenti.

È necessario inoltre riconoscere il momento di insorgenza e la presenza di una grave condizione di instabilità secondaria alla fibrillazione atriale.

In base a queste valutazioni sarà possibile decidere riguardo ad un tentativo di ripristino del ritmo sinusale.

In genere al primo episodio si procede a cardioversione, a prescindere dai sintomi. Se l’episodio ha un’insorgenza databile a meno di 24-48 ore è possibile la cardioversione (farmacologica o elettrica).

In presenza di instabilità emodinamica determinata dalla fibrillazione si deve optare in genere per una cardioversione elettrica immediata. La cardioversione elettrica è una procedura con cui si può interrompere l’aritmia con una sorta di “reset” del battito.

Se l’insorgenza non è recente o non è databile e l’aritmia è ben tollerata, in genere si rimanda la cardioversione (generalmente elettrica) dopo un periodo di terapia anticoagulante di almeno 3-4 settimane. In base a eventuali recidive o alla presenza di cardiopatia si può intraprendere una profilassi farmacologica antiaritmica.

In caso in cui la cardioversione sia inefficace, in base ai sintomi, all’età e al contesto clinico generale, è possibile valutare l’eventuale passaggio a metodiche terapeutiche invasive (ablazione transcatetere/chirurgica).

La procedura di ablazione transcatetere della fibrillazione atriale è complessa poiché richiede il passaggio del catetere ablatore dalle sezioni destre del cuore (cui si arriva per via venosa) a quelle di sinistra. Tale accesso si ottiene attraverso una puntura della membrana del setto interatriale con un ago dedicato. Una volta raggiunto poi l’atrio sinistro si procede all’isolamento elettrico delle quattro vene polmonari con abolizione dei punti responsabili dell’innesco della fibrillazione atriale.

Come prevenire

La fibrillazione atriale a volte risulta secondaria all’ipertensione arteriosa o ad altre cardiopatie, come ad esempio scompenso cardiaco, cardiopatia ischemica. Risulta dunque necessario, per quanto possibile, svolgere dei controlli regolari del profilo pressorio e, quando presenti, impostare un corretto iter terapeutico delle cardiopatie, affidandosi al Medico Cardiologo competente, al fine di prevenire le ricorrenze dell’aritmia.

Fenomeno di Raynaud

Fenomeno di Raynaud

 

Il Fenomeno di Raynaud è caratterizzato da un eccessivo raffreddamento e cambiamento di colore di alcune aree del corpo – solitamente le dita, la punta del naso e le orecchie – in presenza di basse temperature o in condizioni di stress emotivo.

Che cos’è il Fenomeno di Raynaud?

Il Fenomeno di Raynaud è rappresentato dall’eccessivo e anomalo restringimento dei vasi sanguigni (vasospasmo) in presenza di stimoli scatenanti (sbalzi di temperatura, emozioni intense), che alterano il flusso sanguigno nelle zone periferiche del nostro organismo, quali le dita. Nei casi più gravi, la riduzione della circolazione a livello delle dita può diventare cronica e comportare la formazione di ulcere.

Da cosa può essere causato il Fenomeno di Raynaud?

Alla base del Fenomeno di Raynaud sembra ci sia l’eccessiva reattività dei vasi sanguigni alle temperature e allo stress, che comporta una riduzione del flusso di sangue alle estremità del corpo per limitare la dispersione di calore. In realtà sono due le forme di questa condizione. La più diffusa è la forma primaria, la cui causa è ignota e non è correlata a nessuna malattia sistemica che possa provocare il restringimento dei vasi sanguigni; la forma secondaria è invece correlata a una condizione medica sottostante (per es. la sclerodermia, la connettivite mista, la poli/dermatomiosite) e fattori predisponenti noti tra cui per es. l’utilizzo di strumenti lavorativi freddi o vibranti, il fumo, traumi alle mani o ai polsi, l’assunzione di alcuni farmaci (ad esempio i beta bloccanti), l’esposizione a cloruro di vinile e disturbi della tiroide.

Con quali sintomi si manifesta il Fenomeno di Raynaud?

Il Fenomeno di Raynaud si può facilmente riconoscere in base a un tipico cambiamento di colore che avviene in tre fasi: le dita diventano prima bianche per lo spasmo dei vasi sanguigni, poi blu nel momento in cui si ripristina la circolazione venosa, e infine rosse quando anche il sangue arterioso torna a circolare. La frequenza, durata e gravità dello spasmo dei vasi sanguigni sono variabili, e si verificano in genere anche intorpidimento e alterazione della sensibilità tattile.

Come si può prevenire il Fenomeno di Raynaud?

Il rischio di comparsa di episodi di Fenomeno di Raynaud può essere ridotto con un’adeguata protezione dal freddo, per esempio optando per un abbigliamento adatto durante l’inverno, coprendosi bene anche quando si sta negli ambienti domestici con aria condizionata, utilizzando dei guanti per armeggiare nel frigorifero o nel congelatore. Si consiglia inoltre di sospendere i fattori scatenanti quali il fumo, i farmaci (in particolare beta bloccanti e pillola anti-concezionale), l’utilizzo di strumenti vibranti quali il trapano, mantenere un’attività fisica adeguata.

Diagnosi

Per distinguere la forma primaria da quella secondaria di Fenomeno di Raynaud il medico ha la necessità di raccogliere informazioni cliniche complete al momento della visita, e può sottoporre il paziente a un esame detto capillaroscopia periungueale: eseguito appunto a livello della base delle unghie delle mani, questo esame consente l’analisi dei vasi sanguigni per valutarne lo stato di salute.

Nelle situazioni in cui c’è il sospetto di una forma secondaria, possono essere prescritti altri esami, variabili in base alla patologia di cui si vuole verificare la presenza, e nel sospetto di una malattia autoimmune correlata al Fenomeno di Raynaud si possono per esempio richiedere ANA ed anti-ENA.

Trattamenti

Il trattamento del Fenomeno di Raynaud viene stabilito in base alla sua gravità e all’eventuale presenza di patologie sottostanti. In molti casi, più che di una disabilità si tratta di un semplice disturbo fastidioso, per cui se i sintomi sono lievi può essere sufficiente coprire le estremità in modo adeguato ed evitare gli sbalzi di temperatura. Bisogna inoltre eliminare i fattori predisponenti, se possibile, per esempio cambiando mansioni lavorative se il paziente è esposto a basse temperature o all’utilizzo di strumenti vibranti, sospendendo l’abitudine del fumo ed eliminando eventuali farmaci che possono causare il Fenomeno di Raynaud.

In casi più complicati è possibile assumere farmaci per ridurre il numero di attacchi, prevenire il danno ai tessuti e trattare eventuali patologie sottostanti.

Tra i farmaci che possono essere utilizzati per promuovere la buona circolazione possono essere prescritti:

calcio-antagonisti

alfa-bloccanti

vasodilatatori

A volte è possibile che sia necessario effettuare altri trattamenti più invasivi come interventi chirurgici ai nervi (es. sindrome del tunnel carpale) se considerati fattore scatenante, e in caso di comparsa di ulcere sarà necessario iniziare infusioni di vasodilatatori e medicazioni accurate.

Endocardite infettiva

Endocardite infettiva

 

L’endocardite è un’infiammazione del rivestimento interno del cuore (endocardio). In genere l’endocardite viene provocata da un’infezione, solitamente batterica, ma può essere anche di natura non infettiva, per esempio di origine reumatica. Se non viene curata, si può avere un grave danno ai tessuti del cuore e alle valvole cardiache.

Che cos’è l’endocardite infettiva?

L’endocardite è un processo infiammatorio che colpisce l’endocardio, il sottile rivestimento delle pareti interne delle cavità cardiache. L’infiammazione può coinvolgere le pareti degli atri e dei ventricoli, per cui in questo caso parliamo di endocardite parietale, oppure, molto più frequentemente le valvole, per cui si parla di endocardite valvolare.

L’endocardite può essere la causa di alterazioni permanenti delle strutture valvolari, provocandone il restringimento (stenosi) o l’incontinenza (insufficienza) o entrambe. Colpisce più frequentemente i soggetti che hanno un difetto congenito e può colpire anche protesi, come valvole cardiache artificiali, soprattutto nel primo anno dopo l’impianto.

Da cosa può essere causata l’endocardite infettiva?

Diverse cause possono determinare l’endocardite. L’endocardite reumatica è provocata dal processo infiammatorio dovuto alla malattia reumatica (una sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche). Questo porta alla formazione di noduli che coinvolgono principalmente la valvola mitrale e aortica.

Si ha endocardite infettiva nelle situazioni in cui i microrganismi che provengono da altre parti del corpo, come bocca, tonsille, intestino, pelle, vie urinarie, si inseriscono nel torrente ematico ed arrivano al cuore. Più comunemente viene provocata da batteri – si parla di endocardite batterica – che, in presenza di deficit del sistema immunitario o di difetti congeniti, possono insediarsi nell’endocardio e originare lesioni che vengono chiamate “vegetazioni”: si tratta infatti di escrescenze formate da materiale fibrinoso dentro cui si annidano i batteri. Dalle vegetazioni possono staccarsi frammenti che attraverso il torrente ematico possono raggiungere altri distretti, disseminando l’infezione.

Fra altri possibili fattori di rischio per l’endocardite infettiva troviamo le parodontopatie, le malattie a trasmissione sessuale, cateteri vascolari infetti, l’uso di siringhe non sterili e infette, tatuaggi e piercing praticati con attrezzature non sterili.

Con quali sintomi si manifesta l’endocardite infettiva?

L’endocardite può essere caratterizzata da un decorso lento oppure da un esordio acuto. I sintomi variano a seconda delle cause e delle forme.

L’alterazione della funzionalità delle valvole cardiache può comportare:

soffi cardiaci, determinati dalle alterazioni del flusso sanguigno

disturbi del ritmo cardiaco

Nelle endocarditi batteriche i sintomi sono più evidenti e a rapida evoluzione a causa del danneggiamento delle valvole cardiache con possibile ulcerazione e perforazione. Essi includono:

Febbre

Brividi

Stanchezza

Mal di testa

Dolore alle articolazioni e ai muscoli

Sudorazione notturna

Mancanza di respiro

Pallore

Tosse persistente

Gonfiore a piedi, gambe e addome (edema)

Perdita di peso

Sangue nelle urine

Dolorabilità e ingrossamento della milza (splenomegalia)

Noduli di Osler, piccoli rilievi dolenti, di colore rosso, sulla punta delle dita delle mani o dei piedi.

Macchie di colore violastro o rosso (petecchie) sulla pelle, negli occhi o dentro la bocca.

Come si può prevenire l’endocardite infettiva?

Per i pazienti a rischio (portatori di protesi valvolari, cardiopatie congenite, con endocardite pregressa), prima di effettuare delle manovre odontoiatriche che richiedono la manipolazione del tessuto gengivale o che prevedono la perforazione della mucosa orale, è consigliata la profilassi antibiotica, che rappresenta uno scudo contro l’infezione.

Per i pazienti a rischio è consigliabile porre particolare attenzione all’igiene orale, usando regolarmente spazzolini, filo interdentale e collutori.

Si dovrebbero inoltre evitare piercing e tatuaggi o nel caso bisognerebbe affidarsi a operatori che rispettano rigide misure igieniche (attrezzature e ambienti sterili). Nel caso di ferite o di infezioni della pelle è necessario consultare il medico per concordare un’eventuale terapia antibiotica.

È anche consigliabile sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale, per evitare le possibili complicazioni dell’influenza, che possono facilitare lo sviluppo di un’endocardite infettiva.

Diagnosi

Il medico può avere il sospetto di un’endocardite in seguito al riscontro, all’auscultazione cardiaca, di un soffio di nuova comparsa. Il soffio cardiaco è un rumore determinato dalla turbolenza del flusso sanguigno dovuta alle alterazioni strutturali delle valvole. Successivamente, il medico può utilizzare altri strumenti per approfondire le indagini. Può prescrivere:

Esami del sangue, per la ricerca di batteri attraverso esame colturale del sangue (emocoltura) o per l’evidenziazione di un aumento degli indici infiammatori (tipicamente velocità di eritrosedimentazione, VES, e proteina C reattiva, PCR) o di uno stato di anemia (riduzione dei valori di emoglobina), alterazioni che sono di solito presenti in caso di endocardite.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Rende possibile l’individuazione della presenza di vegetazioni e dell’eventuale malfunzionamento delle valvole cardiache.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso la sonda si introduce dalla bocca e si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente una migliore visualizzazione delle valvole e delle strutture paravalvolari.

Elettrocardiogramma: registra l’attività elettrica del cuore e permette di individuare, tra le altre cose, disturbi del ritmo cardiaco.

Radiografia del torace (RX torace): può dare diverse informazioni, ad esempio può rivelare se il cuore è ingrossato, segno indicativo di insufficienza cardiaca, o se l’infezione si è estesa ai polmoni.

Risonanza magnetica cardiaca (RM) con mezzo di contrasto: produce immagini dettagliate utilizzando la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Permette la visualizzazione molto accurata del cuore e delle strutture limitrofe e fornisce informazioni preziose per la terapia.

Trattamenti

L’endocardite batterica viene curata con una terapia antibiotica mirata. Il trattamento dura diverse settimane.

Se l’endocardite ha provocato danni alle valvole cardiache, può essere necessario intervenire chirurgicamente per “riparare” i danni causati dall’infezione oppure, quando ciò non è possibile, per sostituire la valvola.

 

 

Displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C)

Displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C)

 

Che cos’è e come si manifesta?

La displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C) è una patologia che colpisce il muscolo cardiaco (soprattutto a carico del ventricolo destro) caratterizzata da anomalie funzionali e strutturali dovute alla sostituzione del miocardio (il normale tessuto muscolare cardiaco) con tessuto adiposo o fibro-adiposo. Alla base della patologia si trovano diverse anomalie genetiche che causano alterazioni dell’organizzazione dell’assetto cellulare cardiaco che porta alle suddette modificazioni anatomiche.

Dal punto di vista clinico si verificano manifestazioni di tipo aritmico e disfunzionale con carattere progressivo. Questo carattere progressivo della patologia ha come conseguenza il fatto che i pazienti spesso presentano sintomi eterogenei. I più comuni sono palpitazioni, dispnea e sincope.

Nel 30-50% dei casi ha una distribuzione familiare, con trasmissione sia autosomica dominante che recessiva.

Considerando la presentazione clinica eterogenea e la distribuzione segmentale della sostituzione adiposa che rende le indagini bioptiche poco sensibili, risulta difficile stimare in modo accurato la prevalenza di questa condizione.

Le alterazioni tissutali si concentrano prevalentemente nell’area compresa tra il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’apice e l’anello tricuspidalico (il cosiddetto triangolo della displasia).

Come effettuare le diagnosi

Sono stati formulati criteri diagnostici che comprendono:

Elementi di storia familiare

ECGgrafici, aritmici, strutturali e istologici

Holter ECG

Ecocardiogramma

Risonanza magnetica nucleare cardiaca

Si può proporre uno studio elettrofisiologico (SEF) per la valutazione della suscettibilità aritmica ventricolare: è possibile determinare quale sia il tipo di aritmia inducibile, la morfologia e se essa sia o no tollerata emodinamicamente. È inoltre utile per la distinzione tra le aritmie idiopatiche del ventricolo destro, con decorso benigno, e la ARVD/C.

Trattamenti

La terapia della ARVD/C  ha come obiettivo innanzitutto la protezione dal rischio aritmico.

Sarà necessario cambiare lo stile di vita, per cui verranno escluse attività fisiche rilevanti, ed effettuare un’attenta valutazione della terapia farmacologica. Quest’ultima include betabloccanti, amiodarone, sotalolo.

È utile effettuare uno studio elettrofisiologico con ablazione transcatetere in caso di aritmie non controllabili con il trattamento medico, tachicardie ventricolari monomorfe con origine ben localizzabile, e per limitare gli eventuali interventi di un defibrillatore impiantato.

In relazione all’impianto di un defibrillatore non esiste un’univoca stratificazione del rischio. Viene proposto a pazienti “sopravvissuti” a un arresto cardiaco, o con aritmie refrattarie al trattamento medico, specialmente se giovani, e in caso di coinvolgimento di entrambi i ventricoli.

Come prevenire

La malattia riconosce un’eziologia genetica e pertanto non può essere prevenuta. Una volta effettuata la diagnosi, il corretto procedimento prevede un’adeguata stratificazione del rischio (in base a criteri anatomici, elettrocardiografici e clinici) al fine di decidere la migliore strategia terapeutica.

Cardiomiopatie

Cardiomiopatie

 

Le cardiomiopatie sono patologie che interessano il muscolo cardiaco riducendo l’efficienza del cuore, che fatica a pompare il sangue nel resto del corpo.

Che cosa sono le cardiomiopatie?

Le cardiomiopatie sono suddivise in tre tipi: dilatative, ipertrofiche e restrittive. Le cardiomiopatie dilatative sono le più comuni: sono caratterizzate da problemi al ventricolo sinistro che si dilata e non riesce a pompare efficacemente il sangue. Le cardiomiopatie ipertrofiche sono invece correlate a una crescita o a un anomalo ispessimento del muscolo cardiaco che compromette la funzionalità del cuore. Nelle forme restrittive, infine, il muscolo cardiaco perde elasticità e si irrigidisce. Una cardiomiopatia può comportare alcune complicazioni fra cui si possono includere lo scompenso cardiaco, la formazione di trombi, problemi alle valvole cardiache, morte improvvisa.

Da cosa possono essere causate le cardiomiopatie?

Più di metà dei casi di cardiomiopatia dilatativa – soprattutto nelle età avanzate – viene determinata da una causa di tipo ischemico (un precedente infarto miocardico o una malattia delle coronarie); nelle fasce di età più giovani è più comune la forma cosiddetta idiopatica (cioè di cui non si conosce la causa); in una minoranza di queste forme viene riscontrato un aspetto ereditario; altre cause sono associate all’ipertensione, a malattie delle valvole cardiache, a tachicardie molto rapide e prolungate, all’abuso di alcool e di droghe (cocaina, eroina, anfetamine), ad alcuni farmaci chemioterapici; forme più rare sono correlate all’infezione da HIV e ad altre malattie infettive. Le forme ipertrofiche hanno per lo più un’origine genetica. Non sono molto diffuse le forme restrittive: alcune sono determinate da un’infiltrazione del muscolo cardiaco, come l’amiloidosi, l’emocromatosi, la sarcoidosi; altre forme sono definite idiopatiche (non se ne conosce la causa).

Con quali sintomi si manifestano le cardiomiopatie?

Nelle loro fasi iniziali le cardiopatie possono rimanere asintomatiche, ma con il progredire della malattia ci potrebbero essere dei disturbi legati all’insufficienza cardiaca, come difficoltà respiratorie (sia sotto sforzo che a riposo), gonfiori a gambe, caviglie e piedi, dilatazioni dell’addome dovute all’accumulo di fluidi, tosse, affaticamento, battiti irregolari o episodi di palpitazioni, vertigini e svenimenti. Questi sintomi generalmente hanno la tendenza a peggiorare nel tempo indipendentemente dal tipo di cardiomiopatia.

Come si possono prevenire le cardiomiopatie?

La migliore prevenzione è rappresentata da un corretto stile di vita e dall’eliminazione dei fattori di rischio: condurre una vita sana, fare regolarmente attività fisica (almeno mezz’ora di camminata a passo rapido tre volte la settimana), seguire un regime alimentare sano (non esagerare con il sale, consumare tanta frutta, verdura, pesce, pochi grassi animali, cibi sani e semplici, pochi cibi “industriali”), mantenere un peso corretto (l’eccesso di peso affatica il cuore), evitare tabacco e sostanza nocive come cocaina, anfetamina, anabolizzanti, droghe, evitare l’eccesso di alcol; curare scrupolosamente le condizioni che costituiscono un “fattore di rischio” per il cuore, come ipertensione arteriosa, diabete mellito, elevati livelli di colesterolo nel sangue.

Diagnosi

La diagnosi di cardiomiopatia è basata su un’accurata visita medica in cui il medico indagherà anche sulla presenza di eventuali problemi cardiologici in famiglia.

Al termine della visita il medico potrebbe prescrivere:

una radiografia del torace

un elettrocardiogramma

un ecocardiogramma

un test da sforzo

una scintigrafia miocardica

una risonanza magnetica cardiaca

esami del sangue

 

In base ai risultati di questi esami potrebbe risultare necessario eseguire ulteriori esami di secondo livello, come coronarografia, studio emodinamico, biopsia miocardica.

Trattamenti

Il trattamento più idoneo dipende dal tipo di cardiomiopatia e dal tipo di disturbo presente. Lo scopo è però sempre ridurre i sintomi, prevenire il peggioramento della situazione e ridurre il rischio di complicazioni.

In situazione di cardiomiopatia dilatativa potrebbe essere necessario assumere farmaci (come ACE-inibitori, antagonisti del recettore dell’angiotensina, beta-bloccanti, diuretici e digossina), sottoporsi a interventi chirurgici per l’impianto di particolari pacemaker o defibrillatori, o iniziare un trattamento combinato farmaci-intervento.

In caso di cardiomiopatia ipertrofica si potrebbero prescrivere beta-bloccanti, calcio-antagonisti o particolari antiaritmici. Nel caso in cui il trattamento farmacologico non risultasse sufficiente potrebbe essere necessario un intervento chirurgico correttivo o l’impianto di un pacemaker o di un defibrillatore.

Il trattamento delle cardiomiopatie restrittive ha essenzialmente come obiettivo il miglioramento dei sintomi. Il medico può consigliare di ridurre il consumo di sale e di tenere quotidianamente sotto controllo il peso. Potrebbe essere necessario prescrivere diuretici o farmaci per ridurre la pressione e tenere sotto controllo il battito cardiaco. Nel caso in cui venisse identificata la causa della cardiomiopatia, verranno prescritti anche trattamenti specifici contro la problematica sottostante.

Nei casi più gravi in cui la malattia progredisce nonostante i trattamenti potrebbe essere necessario un trapianto o l’impianto di un dispositivo di assistenza ventricolare (VAD).

Soffio cardiaco

Soffio cardiaco

 

Il soffio cardiaco si manifesta con un rumore anomalo evidenziato dall’auscultazione del torace durante la visita medica. In alcuni casi non è collegato ad alcuna patologia, pertanto viene definito “innocente”, mentre in altre situazioni potrebbe segnalare la presenza di malattie cardiache che è necessario trattare opportunamente.

 

Che cos’è il soffio cardiaco?

In condizioni normali il cuore produce solo suoni causati dalla chiusura delle valvole. Il “soffio cardiaco” è rappresentato da un rumore prodotto dal flusso turbolento del sangue attraverso le valvole, all’interno delle camere cardiache o nelle strutture vascolari maggiori posizionate in prossimità del cuore stesso. Se il soffio è correlato a una patologia cardiaca può essere presente dalla nascita (patologia congenita) o manifestarsi nel corso degli anni (patologia acquisita). Se invece non è possibile collegarlo ad alcuna patologia obiettivabile, il soffio, verosimilmente prodotto da un’elevata velocità di transito del sangue all’interno del cuore e delle valvole, viene definito “ innocente”.

 

Da cosa può essere causato il soffio cardiaco?

Il soffio “innocente” viene generato dal passaggio più veloce del sangue attraverso le strutture cardiache. L’incremento della velocità può essere innescato dall’attività fisica, dalla febbre, dall’anemia, dall’ipertiroidismo, da una gravidanza. Il soffio cardiaco patologico, invece, può essere collegato a difetti congeniti del cuore (il caso più frequente nei bambini) o a problemi alle valvole cardiache che si manifestano in età adulta (come alterazioni degenerative, calcificazioni, lassità o prolasso dei lembi). Le alterazioni valvolari che favoriscono lo sviluppo di un soffio possono anche rappresentare il risultato di infezioni, come avviene nell’endocardite e, indirettamente, nella febbre reumatica.

 

Con quali sintomi si manifesta il soffio cardiaco?

Il soffio “innocente” non è correlato ad alcuna sintomatologia cardiologica per definizione. È anche possibile che i soffi cardiaci che derivano da malattie del cuore non si accompagnino a sintomi specifici, nonostante avvenga più frequentemente che, in base alla gravità della patologia, vengano riscontrati in pazienti che manifestano cianosi della cute (soprattutto a livello di dita e labbra), gonfiori agli arti inferiori o aumento improvviso di peso, fiato corto, tosse cronica, fegato ingrossato, dilatazione e turgore delle vene del collo, dolore al petto, vertigini, svenimenti e, nei bambini, scarso appetito e problemi di crescita.

 

Come si può prevenire il soffio cardiaco?

Non ha senso parlare di prevenzione nel caso del soffio cardiaco patologico, poiché rappresenta un segno di malattia cardiaca che si è già verificata.

 

Diagnosi

Solitamente il soffio cardiaco viene rilevato nel corso di una visita medica, in cui il medico ausculta il cuore con lo stetoscopio appoggiato sul torace.

Sarà il medico a valutare l’intensità del soffio, la sua posizione rispetto alle valvole cardiache (ogni valvola viene meglio “auscultata” in alcune posizioni specifiche sul torace), il suo tono, il momento di comparsa nel ciclo cardiaco, la durata ed eventuali fattori in grado di modificarlo come la respirazione del paziente o l’attività fisica, allo scopo di stabilire la gravità del problema.

Per arrivare all’ipotesi di una causa il medico investigherà anche su eventuali patologie e disturbi cardiaci presenti in famiglia.

Nel caso in cui si sospetti un soffio patologico, gli esami che potrebbero essere prescritti sono:

Radiografia (Rx) torace

Elettrocardiogramma (ECG)

Ecocardiogramma transtoracico o transesofageo

TAC cuore

Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) cuore

Cateterismo cardiaco

 

Trattamenti

In genere per il paziente che presenta un soffio cardiaco “innocente” non è richiesto alcun trattamento specifico. Se il soffio venisse collegato a una malattia extracardiaca, come l’ipertiroidismo o l’anemia, scomparirà attraverso la cura della patologia sottostante.

Talvolta anche per il soffio patologico non è necessario alcun trattamento: in questo caso il medico raccomanderà solo controlli regolari per monitorare la situazione.

Secondo la gravità della malattia associata al soffio potrà essere indicato:

L’assunzione di vari farmaci, che spaziano dagli antiaritmici agli anticoagulanti ai medicinali per ridurre la pressione (diuretici, ACE-inibitori, betabloccanti).

Interventi chirurgici veri e propri o interventi percutanei effettuati tramite l’inserzione di cateteri nei vasi sanguigni e il posizionamento degli stessi all’interno delle strutture cardiache, per eliminare o correggere anomalie specifiche.

Stenosi aortica

Stenosi aortica

 

La stenosi aortica è una malattia congenita o acquisita della valvola aortica, caratterizzata da una riduzione della capacità di apertura della valvola stessa.

Che cos’è la stenosi aortica?

La stenosi aortica è rappresentata da una riduzione della capacità di apertura della valvola aortica. La stenosi aortica si presenta come un’ostruzione alla fisiologica fuoriuscita del sangue tra il ventricolo sinistro e l’aorta nel corso della sistole, ossia nel momento della contrazione del cuore.

La stenosi aortica determina un sovraccarico di pressione dell’emissione del sangue sul ventricolo, che per compensare e adattarsi a questa situazione, ispessisce le proprie pareti (ipertrofia concentrica), ma provocando tuttavia un aumento di fatica per il cuore.

La stenosi aortica si manifesta solitamente in età matura, tra i 60 e 70 anni, ma l’esordio può essere precedente nei pazienti con valvola bicuspide. L’aumento della frequenza della malattia è direttamente proporzionale all’innalzamento dell’età media della popolazione.

Da cosa può essere causata la stenosi aortica?

Solitamente la stenosi aortica è causata dal naturale invecchiamento dell’organismo e dalla calcificazione della valvola, delle cuspidi e dell’anello valvolare. La causa può essere anche riconducibile a malformazioni congenite o origini reumatiche.

Con quali sintomi si manifesta la stenosi aortica?

Una stenosi moderata non si manifesta attraverso sintomi particolari. Nei casi più importanti (stenosi aortica severa) invece è possibile giungere a un’insufficienza cardiaca con: affanno sotto sforzo, presenza di edemi (ai polmoni o agli arti inferiori), dolore al torace, perdita di coscienza (sincope o pre-sincope con vertigini, sensazione di svenimento o stordimento) in seguito a sforzo. Questi sintomi si possono manifestare anche in una situazione di riposo.

Diagnosi

L’ecocardiografia rappresenta la tecnica diagnostica migliore per effettuare una diagnosi di stenosi aortica. Attraverso un esame ecocardiografico con tecnologia Doppler è possibile confermare la diagnosi, valutare la gravità della situazione e le ripercussioni sul cuore.

Grazie all’ecocardiografia è possibile:

Tracciare l’anatomia valvolare.

Stimare le calcificazioni valvolari.

Misurare l’ampiezza di apertura residua della valvola aortica.

Valutare la funzionalità cuore ed escludere o confermare la presenza di un’ipertrofia delle pareti.

Il Doppler consente invece di:

Misurare la velocità del sangue a livello dell’orifizio aortico; un dato importante per accertare un’eventuale differenza di pressione tra il ventricolo sinistro e l’aorta.

Valutare la superficie dell’orifizio valvolare.

 

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