HOW CAN WE HELP YOU?

Main contact
+39 02 8224 7044(Outpatient Appointments)
+39 02 8224 7042(Inpatient Admissions)

If you need more information, please contact us by phone.

Centers

Check up & Diagnostics
02 8224 8224
Cardio Center
02 8224 4330

Ecocardiografia transesofagea per via endoscopica

Ecocardiografia transesofagea per via endoscopica

 

L’ecocardiografia è una metodica con cui si studiano il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia, gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A che cosa serve l’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica?

L’ecocardiografia permette di ottenere informazioni sulla contrattilità del cuore, sulla morfologia delle sue valvole e sul flusso del sangue nelle sue cavità, sia a riposo che dopo l’esercizio fisico o l’assunzione di un farmaco.

L’ecocardiografia transesofagea rappresenta un esame di secondo livello, indicato generalmente nel caso in cui l’ecocardiogramma transtoracico sia ritenuto insufficiente o non interpretabile rispetto al quesito clinico; in alcuni casi può essere direttamente prescritto come test d’elezione: presenza di patologie difficilmente diagnosticabili, come rare malformazioni congenite, malattie dell’aorta toracica o difetti complessi delle valvole cardiache.

Come funziona l’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura, permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. Il paziente deve togliere eventuali occhiali e protesi, stendersi sul fianco e posizionarsi con busto e collo leggermente flessi versi le gambe. In seguito dovrà deglutire una sonda simile a quella usata per la gastroscopia, inserita attraverso un boccaglio posto tra i denti. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

Chi può effettuare l’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Sono previste norme di preparazione?

Per eseguire l’ecocardiogramma transesofageo è necessario essere a digiuno dalla mezzanotte precedente il giorno dell’esame. Le medicine possono essere assunte cercando di bere solo la minima quantità sufficiente per deglutire i farmaci. In caso di diabete è importante consultarsi con il proprio medico per definire la dose adeguata di insulina che dovrà essere ovviamente ridotta per il digiuno.

 

L’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica è dolorosa o pericolosa?

L’ecocardiografia transesofagea non è dolorosa né pericolosa, ma il passaggio della sonda attraverso la bocca potrebbe generare un certo fastidio. Per tale motivo, per migliorare la tolleranza alla manovra, il medico o il personale infermieristico effettuano una anestesia locale (spruzzando uno spray in gola), alla quale possono associare, nei pazienti più sensibili, un blanda sedazione per via endovenosa. In questo caso, potendo essere ridotto lo stato di vigilanza, dopo l’esame non sarà possibile guidare o svolgere attività che richiedano un’attenzione particolare per almeno 5-6 ore.

Ecocardiografia (ecocardiogramma) 3D

Ecocardiografia (ecocardiogramma) 3D

 

L’ecocardiografia è una metodica con cui si studiano il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia, gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A che cosa serve l’ecocardiografia 3D?

L’ecocardiografia 3D consente di effettuare una migliore valutazione d’insieme del cuore, particolarmente utile nel caso delle malattie valvolari (soprattutto della valvola mitrale) e dei difetti interatriali.

Come funziona l’ecocardiografia 3D?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

 

Chi può effettuare l’ecocardiografia 3D?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Sono presenti norme di preparazione?

L’ecocardiografia 3D non richiede nessuna preparazione.

 

L’ecocardiografia 3D è pericolosa o dolorosa?

L’ecocardiografia non è né dolorosa né pericolosa.

Ecocardiografia (ecocardiogramma)

Ecocardiografia (ecocardiogramma)

 

L’ecocardiografia è una metodica con cui si studiano il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia, gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A che cosa serve l’ecocardiografia?

L’ecocardiografia permette di ottenere informazioni sulla contrattilità del cuore, sulla morfologia delle sue valvole e sul flusso del sangue nelle sue cavità, sia a riposo che dopo l’esercizio fisico o l’assunzione di un farmaco.

Esistono varie modalità di esecuzione:

-l’ecocardiografia transtoracica,

-l’ecocardiografia transesofagea (per via endoscopica),

-l’ecocardiografia 3D (tridimensionale).

 

Come funziona l’ecocardiografia?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura, permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

 

Chi può effettuare l’ecocardiografia?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Quali sono le norme di preparazione?

A seconda della tipologia di esame possono essere necessarie o meno norme di preparazione:

-per informazioni sull’ecocardiografia transtoracica.

-per informazioni sull’ecocardiogramma transesofageo.

-per informazioni sull’ecocardiografia 3D.

 

L’ecocardiografia è pericolosa o dolorosa?

L’ecocardiografia né dolorosa, né pericolosa.

Tenosinovite stenosante (dito a scatto)

Tenosinovite stenosante (dito a scatto)

 

La tenosinovite stenosante, comunemente nota come dito a scatto, interessa le pulegge e i tendini della mano, indispensabili per la flessione delle dita.

I tendini funzionano come delle lunghe funi e connettono i muscoli dell’avambraccio alle ossa delle dita. Nelle dita le pulegge formano dei tunnel fibrosi entro cui scorrono i tendini, facilitati dalla presenza delle relative guaine. Le pulegge trattengono i tendini vicino alle ossa con lo scopo di ottenere il movimento di flessione delle dita.

La tenosinovite stenosante si presenta quando nella guaina tendinea si sviluppa una zona di rigonfiamento. Ogni volta che attraversa la puleggia vicina al rigonfiamento il tendine viene schiacciato con conseguente dolore e una sensazione di scatto nel dito corrispondente. Quando il tendine scatta produce ulteriore infiammazione e gonfiore. Si crea così un circolo vizioso che sostiene l’infiammazione, il gonfiore e lo scatto del dito. Talvolta il dito si blocca in flessione e diventa difficile e molto doloroso raddrizzarlo.

 

Quali sono le cause della tenosinovite stenosante?

Le cause di questo processo infiammatorio non sono sempre chiare. Può essere dovuto a microtraumi ai tendini flessori o a un sovraccarico funzionale, ma giocano anche un ruolo importante patologie come artrite reumatoide, diabete e gotta.

 

Quali sono i sintomi della tenosinovite stenosante?

Il dito a scatto si manifesta inizialmente con indolenzimento alla base del dito, dove può essere rilevato un piccolo nodulo.

 

Trattamento

L’obiettivo del trattamento è eliminare lo scatto o il blocco del dito e ripristinarne il normale movimento. Il gonfiore intorno al tendine flessore e alla sua guaina devono essere ridotti per consentire un migliore scorrimento nella puleggia. La somministrazione di antinfiammatori e l’applicazione di tutori possono essere indicati per diminuire l’infiammazione del tendine. Il trattamento può anche includere il cambiamento delle attività manuali.

Qualora questi trattamenti non dovessero essere sufficienti a migliorare i sintomi, al paziente può essere suggerito un intervento in day hospital. Lo scopo della chirurgia è di aprire la prima puleggia in modo che il tendine possa scorrere liberamente. Il movimento attivo del dito generalmente inizia subito dopo l’intervento e l’uso normale della mano può essere raggiunto in breve tempo.

Tendinite del piede

Tendinite del piede

 

La tendinite è una delle cause più comuni di dolore al piede e alla caviglia. Nello specifico si tratta di  un’infiammazione che colpisce il tendine, una struttura forte e resistente fatta di tessuto fibroso e simile a una corda. Serve ad ancorare saldamente il muscolo all’osso e permette il movimento dell’articolazione.

 

Che cos’è la tendinite del piede?

Le tendiniti del piede sono infiammazioni molto comuni, in aumento negli ultimi anni soprattutto per una maggiore frequenza della pratica sportiva fin dalla giovane età e per l’uso di calzature spesso inappropriate suggerite dalla moda.

I tipi più comuni di tendiniti sono:

-tendinopatia achillea: il tendine calcaneare o tendine d’Achille è il tendine che collega i muscoli del polpaccio alla parte posteriore del tallone. È il tendine più largo e forte del corpo. L’infiammazione è un evento frequente durante la corsa e non a caso si parla di tendinite del podista

-tendinite del tibiale posteriore: si tratta di una tendinite solitamente associata con il piede piatto. Il tendine del muscolo tibiale posteriore si inserisce tra la parte interna della caviglia e il collo del piede

-tendinite dei tendini dei flessori: si manifesta con dolore nella parte posteriore della caviglia sul lato dell’alluce. Questa tendinite è tipica dei ballerini per via della posizione in equilibrio sulle punte richiesta dall’attività

-tendinite dei tendini estensori delle dita: colpisce la parte superiore del piede ed è solitamente causata dallo sfregamento del piede contro la scarpa o da condizioni infiammatorie come l’artrite reumatoide

 

Quali sono le cause della tendinite al piede?

Le cause della tendinite ai piedi possono possono essere diverse:

-infortuni

-traumi

-usura

-movimenti ripetitivi durante lo sport

-calzature inappropriate

-sfregamento contro speroni ossei

-malattie metaboliche

La causa più frequente delle tendinite è un sovraccarico funzionale del tendine sottoposto a un’attività eccessiva come avviene nella corsa o in altre attività sportive.

Altre cause sono:

-Infortunio al piede o alla caviglia a causa di  un movimento brusco come saltare o atterrare sul suolo da un punto alto

-una struttura del piede anomala. Problematiche come i piedi piatti o il piede cavo possono creare squilibri muscolari che influenzano la stabilità di uno o più tendini

-patologie sistemiche come l’artrite reumatoide, la gotta o le spondiloartropatie

 

Quali sono i sintomi della tendinite al piede?

I sintomi di una tendinite includono dolore e talvolta gonfiore nell’area soggetta a infiammazione. I sintomi possono manifestarsi a riposo e più di frequente durante il movimento. Altri sintomi sono la debolezza e il dolore quando si appoggia o si ruota il piede e quando si cammina.

 

Come prevenire la tendinite del piede?

La prevenzione delle tendiniti si ottiene limitando sforzi ripetitivi e usuranti, ricordandosi di effettuare esercizi di stretching dolce prima dell’attività sportiva, scegliendo con cura calzature adatte e sottoponendosi a controlli ortopedici per identificare eventuali anomalie del piede.

Tendinite

Tendinite

 

La tendinite consiste nell’infiammazione di un tendine ossia della struttura che collega le ossa ai muscoli e permette il movimento delle articolazioni.

 

Che cos’è la tendinite?

La tendinite può avere un’insorgenza acuta o progressiva. È caratterizzata da dolore e tumefazione locale e difficoltà alla mobilizzazione dell’articolazione coinvolta. Nel caso in cui vi sia un’alterazione della normale struttura collagenica del tendine, nelle forme croniche recidivanti o dopo assunzione di alcuni farmaci tenotossici (per esempio alcuni antibiotici o dopo ripetute infiltrazioni con corticosteroide) si può avere la rottura del tendine. In questo caso necessita di intervento chirurgico per essere risolto. Le tendiniti possono essere associate alla presenza di calcificazioni. Sebbene la tendinite possa colpire i tendini di qualsiasi articolazione, quelle più comunemente colpite sono:

-spalle (tendinite della cuffia dei rotatori, ecc).

-gomiti (epicondilite o gomito del tennista, ecc).

-mani/polsi (dito a scatto, ecc).

-anche (trocanteriti, ecc).

-ginocchia (tendinite del quadricipite o jumper knee, ecc).

-caviglie (tendinite d’Achille, fasciti plantari ecc).

 

Quali sono le cause della tendinite?

Le cause delle tendinite sono soprattutto di ordine meccanico. Nelle forme acute è frequente l’origine traumatica, soprattutto in ambito sportivo. Nelle forme croniche, invece, la causa è data più spesso da un movimento ripetuto e continuativo.

Esiste inoltre una maggiore predisposizione in soggetti affetti da patologie metaboliche, quali il diabete o le tireopatie. In tal caso l’alterato metabolismo dei tessuti sembra indurre una maggiore debolezza della loro struttura e una difficoltà ad attivare i normali processi di riparazione.

Analogamente, fattori quali il sovrappeso e l’obesità sono fattori predisponenti e, purtroppo, sfavorevoli per una risoluzione ottimale della patologia.

 

Quali sono i sintomi della tendinite?

La tendinite si presenta nella maggior parte dei casi come un dolore acuto che insorge rapidamente. Nell’arco di qualche giorno la fase iniziale di infiammazione spesso decorre senza sintomi particolarmente rilevanti. In altri casi il dolore viene sentito come un dolore “a freddo”, cioè nel momento in cui si inizia a usare una articolazione, per poi diminuire con il suo utilizzo. In quest’ultimo caso però spesso evolve in un dolore che, progressivamente, compare anche al movimento. A volte si può notare tumefazione del tendine infiammato (per esempio nel tendine di Achille) oppure delle formazioni cistiche (per esempio nelle tendiniti del polso). Occasionalmente si può associare calore al tatto e raramente arrossamento della cute sovrastante.

 

Quali sono i fattori di rischio per la tendinite?

Possono essere considerati fattori di rischio per la tendinite:

-lavori manuali ripetitivi o effettuati in posizioni scomode e innaturali, indipendentemente dai carichi (pesi) coinvolti.

-attività sportiva con carichi eccessivi o scorretti, assenza di tempi di recupero adeguati, tecnica sportiva errata, mancato periodo di riscaldamento o stretching a fine attività.

-età, sovrappeso e patologie metaboliche, in cui si assiste a una progressiva modificazione della struttura tendinea.

 

Come prevenire la tendinite?

Per ridurre la possibilità di incorrere in una tendinite si possono mettere in atto una serie di precauzioni:

  • Durante l’attività sportiva è fondamentale importante un corretto riscaldamento iniziale e la correttezza del gesto atletico. Una volta terminata l’attività è necessario fare dello stretching. Bisogna inoltre tener conto che vi sono dei tempi di recupero che variano molto in base all’età e alla presenza di patologie di base.
  • Durante l’attività lavorativa risulta invece utile fare attenzione alle cattive posture o al non mantenere la stessa posizione troppo a lungo.

Uno stile di vita sano, con controllo del peso e attività fisica leggera, è da considerarsi fondamentale.

 

Diagnosi

La tendinite si diagnostica attraverso l’esame clinico del paziente, associato a esami strumentali quali l’ecografia, che risulta l’esame da fare sempre in prima battuta. In casi particolari può essere consigliato il ricorso  alla risonanza magnetica nucleare.

 

Trattamenti

In prima battuta la tendinite si cura con riposo (eventuale scarico), ghiaccio locale e analgesici. L’utilizzo dei FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei) è attualmente argomento di discussione. Se tale approccio non fosse sufficiente si può procedere con terapie fisiche locali come laser e ultrasuoni, oppure terapie più innovative quali le onde d’urto focali che uniscono all’effetto antiinfiammatorio quello rigenerativo dei tessuti. Spesso risulta fondamentale il trattamento fisiokinesiterapico a complemento delle terapie citate. Le infiltrazioni con cortisonico sono indicate solo in casi di dolore estremamente intenso con impossibilità ad utilizzare l’articolazione coinvolta, tenendo sempre conto del potenziale effetto negativo che i corticosteroidi hanno sul tendine.

Nelle lesioni tendinee il trattamento è esclusivamente chirurgico.

Visita ortopedica all’anca

Visita ortopedica all’anca

 

Ai pazienti che presentano dolori all’anca, rigidità o zoppia è generalmente suggerita una visita specialistica con un ortopedico.

La visita specialistica è una tappa fondamentale per la diagnosi di patologie congenite (cioè presenti sin dalla nascita) o acquisite (ossia conseguenti a traumi, a malattie o al naturale processo di invecchiamento) che colpiscono l’articolazione dell’anca.

 

A cosa serve la visita ortopedica dell’anca?

 

La visita ortopedica dell’anca serve a identificare la causa alla base del dolore, della rigidità o delle difficoltà a deambulare lamentati dal paziente. Attraverso un’accurata visita specialistica ed, eventualmente, la prescrizione di indagini diagnostiche più approfondite l’ortopedico potrà elaborare un’ipotesi sull’origine del disturbo. Alcune tra le patologie a carico dell’anca diagnosticabili sono: la displasia dell’anca, l’anca a scatto, l’artrosi, l’impingement femoro-acetabolare, la lesione del labbro acetabolare, la necrosi avascolare cefalica e la trocanterite.

Altre volte la visita ortopedica è necessaria per un controllo periodico in caso di artrosi o di un’altra patologia. In questo caso ovviamente lo scopo è adattare la terapia alle nuove condizioni dell’articolazione o verificare la possibilità di  procedere con un intervento chirurgico.

 

Come si svolge la visita ortopedica dell’anca?

 

L’ortopedico procederà all’anamnesi raccogliendo informazioni sullo stato di salute del paziente (incluse le caratteristiche dei sintomi per cui gli è stata prescritta la visita), sulla sua storia clinica (ad esempio su traumi precedenti all’anca) e sulla sua storia personale (età, lavoro e attività sportive praticate). Segue un esame obiettivo durante il quale il medico visita l’anca, valutando il dolore, le possibilità di movimento e la forza muscolare. Se disponibili, l’ortopedico analizzerà anche i referti di radiografie o di altre analisi condotte sull’articolazione.

Al termine della visita possono essere prescritte indagini diagnostiche come radiografie, Tac o risonanza magnetica per approfondire l’analisi della problematica alla base dei sintomi rilevati.

 

Sono previste norme di preparazione?

 

La visita ortopedica dell’anca non prevede alcuna preparazione specifica, ma il paziente deve portare con sé i referti di eventuali indagini strumentali prescritte dall’ortopedico al termine della visita precedente o condotte in passato (ad esempio recenti radiografie).

Mappatura dei nei

Mappatura dei nei

 

Definizione

La mappatura dei nei consiste nell’acquisire in computer sia le immagini macroscopiche dei nei sia quelle demoscopiche di essi. Le immagini demoscopiche si acquisiscono con una apposita telecamera dotata di lente che si appoggia su ogni neo per cogliere immagini non visibili a occhio nudo.

 

A cosa serve la mappatura dei nei?

La mappatura dei nei serve per poter capire se uno o più nei nel tempo cambiano aspetto e diventano pericolosi, in modo da asportarli e prevenire quindi la loro degenerazione in melanoma.

 

Come funziona la mappatura dei nei?

Il paziente viene fatto spogliare e sdraiare sul lettino. Il dermatologo provvederà a effettuare tramite l’utilizzo del dermatoscopio un esame dei nei presenti sulla pelle, provvedendo alla loro mappatura. L’esame verrà poi ripetuto sull’altro lato del corpo. Le foto cliniche e demoscopiche dei nevi vengono numerate e quindi archiviate per poterle confrontare con le immagini nei mesi o anni successivi in modo da poter notare segni di modificazioni non riconoscibili a occhio nudo.

 

Chi può effettuare l’esame?

Chiunque può sottoporsi a questo esame.

 

Sono necessarie norme di preparazione?

Per sottoporsi alla mappa dei nei occorre non essere abbronzati.

 

La mappatura dei nei è dolorosa o pericolosa?

Questo esame diagnostico risulta del tutto indolore e non invasivo, non è minimamente pericoloso e non presenta alcuna controindicazione.

Aborto spontaneo

Aborto spontaneo

 

Il termine medico “aborto spontaneo” sta ad indicare un’interruzione di gravidanza che avviene spontaneamente entro i primi 180 giorni di gravidanza ed è un evento abbastanza comune: le statistiche evidenziano infatti che l’aborto spontaneo succede nel 30% delle gravidanze.

 

Che cos’è l’aborto spontaneo?

L’aborto spontaneo può essere “completo” e dunque consistere nell’espulsione spontanea totale dell’embrione o feto senza vita, o “incompleto” o “ritenuto” ossia quando la gravidanza è parzialmente o completamente presente nella cavità uterina, ma non è presente nessuna attività cardiaca del feto.

 

Quali sono le cause dell’aborto spontaneo?

Le cause che possono portare le donne in gravidanza ad un aborto spontaneo sono tante, tra le principali vi sono:

  • anomalie cromosomiche (è sicuramente la causa più frequente di abortività spontanea. La frequenza aumenta con l’aumentare dell’età materna);
  • malformazioni congenite (utero setto, unicorne ecc) o acquisite (polipi, fibromi) dell’utero;
  • incontinenza cervicale (il collo uterino tende a dilatarsi in epoca molto precoce di gravidanza, anche in assenza di contrazioni, conducendo all’espulsione del feto);
  • malattie autoimmuni o trombofiliche (in cui aumenti , cioè, la coagulazione del sangue);
  • patologie infettive come toxoplasmosi, rosolia, infezione da citomegalovirus che possono contagiare il feto e causarne la sofferenze e poi la morte;
  • infezioni vaginali non trattate;
  • insufficienza del corpo luteo che non produce abbastanza progesterone, l’ormone che favorisce l’impianto e il mantenimento della gravidanza nel primo trimestre.

 

Quali sono i sintomi dell’aborto spontaneo?

A volte possono capitare anche i cosiddetti aborti silenti, manifestazioni che nonostante la diagnosi è clinica fatta con l’ecografia, non hanno comunque presentato alcuna tipologia sintomatica. Altre casistiche hanno evidenziato invece perdite ematiche o contrazioni uterine. I sintomi con cui si può presentare un aborto spontaneo possono essere molto diversi tra loro e variabili in rapporto alle diverse situazioni cliniche.

 

Come prevenire un aborto spontaneo?

Le azioni di prevenzione dell’aborto spontaneo sono anche molto diverse e variano in base alla causa all’origine dell’aborto.

Il riposo è senza dubbio il principale deterrente e il trattamento fondamentale consigliato dal medico quando la gestante è un soggetto a rischio di minaccia d’aborto. – Una terapia preventiva a base di progesterone può essere efficace nei casi in cui si sospetti una insufficienza del corpo luteo. In caso di patologie autoimmuni (come la sindrome da antifosfolipidi) o in condizioni di eccessiva trombofilia, possono essere prescritti l’utilizzo di eparina o di acido acetil-salicilico. Quando i soggetti soffrono di incompetenza cervicale si esegue il cerchiaggio della cervice. È bene provvedere al trattamento di patologie come il diabete o a carico della tiroide già prima dell’inizio di una gravidanza.

 

Diagnosi

In linea di massima la diagnosi di aborto spontaneo viene fatta a seguito di:

  • visita ginecologica;

Possono essere prescritti anche:

  • test di gravidanza;
  • dosaggio plasmatico della frazione beta dell’ormone della gravidanza (HCG). L’HCG viene prodotto a partire dall’impianto in utero e aumenta costantemente fino al terzo mese di gravidanza. Le sue modificazioni sono utili per capire l’evolutività o meno di una gravidanza.

 

Trattamenti

Diagnosticato un aborto spontaneo, le strade possibili sono generalmente due:

1) la terapia chirurgica: è il cosiddetto “raschiamento” mediante isterosuzione. In pratica, si procede all’aspirazione del materiale abortivo ritenuto in cavità uterina, mediante una cannula inserita attraverso il canale cervicale.

2) in alcuni casi si può decidere di attendere la spontanea espulsione del materiale abortivo dall’utero o facilitarne l’espulsione stessa tramite la somministrazione di farmaci che facilitino la contrazione uterina. Si parla in questo caso di “condotta di attesa”, che viene applicata quasi esclusivamente in presenza di aborto incompleto (più raramente nel caso degli aborti interni), e soprattutto se l’aborto è avvenuto nelle settimane iniziali di gravidanza.

Fibromi uterini

Fibromi uterini

 

I fibromi uterini sono neoformazioni solide benigne che originano dal tessuto muscolare dell’utero e sono una vera e propria rappresentazione di tale neoplasia benigna, molto più frequente nel genere femminile che negli uomini. Basta pensare alle statistiche che evidenziano dati sorprendenti secondo cui una donna su tre, dopo i 35 anni, sia portatrice di almeno un mioma.

 

I fibromi uterini possono essere singoli o multipli e svilupparsi verso la cavità uterina, nello spessore della parete uterina o per l’esterno dell’utero. Queste formazioni tumorali benigne gofono di un’ampia gamma di variabili che vanno da pochi millimetri a diverse decine di centimetri, a volte paragonabili alla grandezza di un’anguria.

 

Che cosa sono i fibromi uterini?

I vari tipi di fibroma non godono di univocità di presenza e possono infatti esistere nell’utero allo stesso tempo. I fibromi sottosierosi e intracavitari possono anche essere peduncolati (ovvero attaccati all’utero solo attraverso un peduncolo, che permette una certa mobilità alla neoformazione).

 

Quali sono le cause dei fibromi uterini?

Lo sviluppo dei fibromi non è stato ancora indagatoo appropriatamente e i ricercatori non hanno ancora identificato le chiare origini alla base di questi. In molti pensano comunque che la predisposizione genetica e la conseguente suscettibilità alla stimolazione ormonale possano essere una valida causa.

 

Quali sono i sintomi dei fibromi uterini?

La sintomatologia che accompagna i fibromi uterini dipende dalle dimensioni ma, soprattutto, dalla sede dei miomi. Accade frequentemente che i fibromi di grosse dimensioni non presentino sintomi. Altre volte, invece, un fibroma di piccole dimensioni, ma collocato, per esempio, all’interno della cavità endometriale, può portare a sintomi importanti. I sintomi riportati dalle pazienti con maggior frequenza sono:

Mestruazioni abbondanti e/o ravvicinate (con conseguente anemizzazione).

Dismenorrea (ossia mestruazioni dolorose).

Dolore pelvico.

 

Difficoltà a iniziare o a portare a termine una gravidanza. A questo proposito bisogna ricordare però che i fibromi sono raramente causa di infertilità e che, quasi sempre, non ostacolano il normale svolgimento della gravidanza stessa, anche se il loro volume subisce regolari incrementi proprio nelle prime fasi di gestazione. Nella maggioranza dei casi, il mioma convive tranquillamente con la gravidanza. Esistono comunque casistiche registrate in cui il mioma è veramente responsabile di contrazioni uterine e riduzione della crescita fetale.

Senso di pesantezza, gonfiore addominale, bisogno frequente di urinare, disturbi intestinali (questi ultimi sintomi sono meno frequenti).

 

Come prevenire i fibromi uterini?

Dal momento che le cause all’origine dello sviluppo dei fibromi uterini non sono ancora conosciute e che un ruolo importante si ritiene venga giocato dalla predisposizione genetica, non sono ancora noti comportamenti virtuosi i quali vengono coinvolti nelle azioni di prevenione contro la formazione e lo sterile presentarsi delle formazioni tumorali benigne.

 

Diagnosi

La diagnosi di fibroma uterino viene effettuata attraverso la visita specialistica ginecologica abbinata all’ecografia trans vaginale e (se necessario) trans addominale.

 

Trattamenti

Spesso i fibromi sono asintomatici: in questi casi il trattamento si basa sul monitoraggio periodico – mediante visita ginecologica ed ecografia – per controllarne le eventuali modificazioni di volume e di posizione. Quando, invece, i fibromi sono sintomatici, le possibilità di trattamento sono:

 

La terapia farmacologica:

pillola contraccettiva estro/progestinica, progesterone naturale o farmaci progestinici. Questi farmaci non sono in grado di eliminare i fibromi, ma possono contrastare il loro accrescimento e, soprattutto, ridurre la quantità del flusso mestruale ed il dolore mestruale.

Farmaci “analoghi del gn-rh”: ossia un’iniezione da fare una volta al mese che blocca la secrezione di ormoni femminili e arrivare a dare vita ad una vera e propria situazione di menopausa non definitiva e temporanea che annulla dunque i sintomi metrorragici e può portare a una certa diminuzione delle dimensioni del fibroma.

Dal momento che i farmaci utilizzati risultano efficaci sui disturbi mestruali, ma spesso non sono in grado di bloccare la crescita dei fibromi e la maggior parte delle volte hanno un’efficacia temporanea (ovvero i sintomi ricompaiono una volta terminata la cura), il trattamento farmacologico viene utilizzato solo in casi specifici (ad esempio, per curare l’anemia provocata dai fibromi o come terapia preparatoria all’’intervento chirurgico).

 

La terapia chirurgica: è volta all’asportazione dei fibromi. In base alla tipologia, alla grandezza e al numero dei fibromi da asportare possono essere impiegate diverse tecniche chirurgiche:

 

Laparoscopia: gli strumenti chirurgici e ottici per eseguire l’intervento vengono inseriti nella cavità addominale attraverso piccole incisioni, una sotto l’ombelico, le altre nella parte bassa dell’addome.

 

Laparotomia: l’intervento viene praticato attraverso un’ampia incisione della parete addominale (ossia “ a cielo aperto”).

 

Isteroscopia: l’intervento viene eseguito introducendo gli strumenti chirurgici in cavità uterina, attraverso la vagina. Questa tecnica permette l’asportazione dei fibromi a sviluppo endocavitario.

 

La chirurgia laparoscopica o laparotomica può essere utilizzata, oltre che in modo conservativo (miomectomia), anche in modo demolitivo, asportando cioè consensualmente alla patologia, tutto il viscere uterino (isterectomia). La scelta della via a cielo chiuso (laparoscopia) o aperto (laparotomia) dipende essenzialmente dalle dimensioni dei miomi.

 

Embolizzazione: è una tecnica radiologica, attraverso la quale si identifica l’arteria che “nutre” il fibroma e la si va a occludere, privando così il fibroma dell’apporto di sangue da cui trae nutrimento per crescere. La manovra comporta quindi una progressiva riduzione del volume dei fibromi stessi senza dover far ricorso all’intervento chirurgico. È una procedura che però non è percorribile per tutti i miomi e, spesso, durante la fase di riassorbimento del fibroma, crea dolore e perdite ematiche.

Right Arrow